Magnolia e la cucina estetica, tra ricordo ed equilibrio

A Cesenatico lo chef Alberto Faccani lucida le due stelle Michelin con un menù pulito e sincero al sapore di mare, bilanciando estro e ricordo.
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Il ristorante due stelle Michelin a Cesenatico ribadisce da quasi vent’anni fedeltà ad una cucina pulita e sincera, che lo chef Alberto Faccani ha cullato bilanciando la cura del dettaglio alla genuinità del ricordo.

Nato nel 2003 ad opera dello chef ravennate Alberto Faccani, nella ridente Cesenatico e a due passi dal frizzante litorale romagnolo, Magnolia rappresenta per il food trotter gourmand una tappa da non sottovalutare, con le sue due stelle Michelin (la prima ottenuta nel 2005, a soli due anni dall’apertura, e la seconda più recente, nel 2018) che rendono questo ristorante così apparentemente “silenzioso” nel mappamondo gourmet una gemma da scoprire. Trascinato nell’immaginario da maestri sacri quali Gualtiero Marchesi e Ferran Adrià, lo chef Faccani corrobora il suo cursus honorum tra i fornelli all’Enoteca Pinchiorri, per due anni formativi che plasmano il “cuoco-imprenditore” di oggi, tra passione, curiosità e rigore. E Magnolia ne è una felice espressione: una location sobria, quasi austera, e un sito web pulitissimo e chiaro, che non ammette, né si lascia sedurre, dal frastuono della movida romagnola.

La location

Dall’esterno appare una villa quasi impenetrabile, della quale si può già scrutare il dehors fin dall’ingresso. L’interno che accoglie gli avventori mantiene una benché piccola dose di solennità, dove il candore che richiama già una cucina pulita detta legge, senza vezzi né eccessi.

Ma è il dehors esterno, riabilitato con tutta la premura che le norme anti-Covid hanno stabilito, a fare da cornice all’esperienza gourmet, e complici le temperature frizzanti che profumano d’estate, il pranzo si pregusta già interessante.

I piatti

Abbinamenti armonici, sapori puri e divertimento sono le caratteristiche principali della cucina proposta dallo chef Faccani, che la definisce “medio-creativa”, al riparo dal superfluo per ricercare la purezza della materia prima, quella che scatena il ricordo e la sua serenità generativa. Cinque portate e tre vini in abbinamento: il menu degustazione che ci aspetta è a totale discrezione dello chef e inizia subito con colori e sorprese con quattro amuse-bouche presentati su ceramiche curiose, tra solidità e movimento (caratteristica che le porcellane sfodereranno per tutto il pranzo). Siamo in un due stelle Michelin, l’apertura è di quelle giuste. Partiamo con i cannoli di pasta fillo con fiori eduli e maionese all’acetosella, da spazzolare in un sol boccone, quindi i mini soufflè alle erbe, i cannolini di pasta choux al tartufo e per finire, il pezzo più interessante, il mini taco che accoglie baccalà mantecato, peperone e aneto. Un menu che si preannuncia colorato, più che sofisticato, irrobustito da un’ottima selezione di lievitati a corredo. A proposito, la sfoglia al burro è irresistibile (le motivazioni sono ovvie), e la focaccia è un’ottima compagna di attese, peraltro brevi, tra una portata e l’altra.

Ci si mette un po’ a capire che sotto il velo di gelatina, che nasconde ma non ruba, abbiamo a che fare con una panzanella di mare, il primo antipasto della degustazione. Ben celati, sotto le mazzancolle vibranti, i tocchetti di pane che reggono un pregevole mix di crostacei e verdura, con un tocco di salicornia per ravvivarne le striature e l’acqua di pomodoro a legare. Un antipasto freschissimo e colorato, gioioso e complesso, che conferma l’itinerario di mare del menu degustazione, a cui accedere contemplandone la mediterraneità. E poi c’è, come anticipato all’inizio, la corsa al ricordo, a quelle istanze del passato che mettono pace, unite ad un impiattamento meticoloso, che culla estetica e precisione.

Uno dei piatti sicuramente più riusciti (e pare anche uno dei capisaldi della cucina di Faccani) è il secondo antipasto proposto: la carbonara di calamari cotti sottovuoto a bassa temperatura con tuorlo d’uovo sferificato, guanciale, pecorino e tartufo. Nell’epoca del veganesimo, che prende inopinatamente in prestito i titoli classici della cucina tradizionale, qua la carbonara è reale e cambia soltanto il protagonista: esce il bucatino, entra il calamaro. Questo è senza dubbio il piatto migliore, rispolverato dalle genuinità popolari, capace di soddisfare tutti i sensi in un climax di gusto notevole, che il tartufo, nobilitandolo, amplifica fino alla meritata estasi.

Il pesce, fresco e volentieri crudo, è il nostro Cicerone in questo viaggio gourmet che affonda i suoi legami nel mare e nelle sue meraviglie. I gamberi tagliati al coltello comandano sulla vetta di queste linguine, adagiate su quella che ci sembra una “bisque di crostacei” (nonostante il personale di sala la declami come “fondo di pesce”). Al di là delle disquisizioni, il piatto trionfa per eleganza e colori, ma forse rimane un po’ troppo “basic” per un ristorante stellato, peccando di eccessiva semplicità per quanto il pesce ne sia ovviamente protagonista. Ecco, la portata del primo rallenta leggermente questo interessante percorso verso l’eccellenza.

Il menu riprende però subito quota con la seconda portata principale, il trancio di merluzzo con zucchine, melissa e pistacchio. Un piatto che non eccede in ostinate combinazioni, ma mantiene una cromia naturale, e soprattutto quel trancio di merluzzo si scoglie che è una meraviglia, con le zucchine che donano la croccantezza giusta nel contrasto che riporta il tutto in equilibrio.

Qua invece è dove si decantano le odi al predessert, nato proprio per preparare le papille alla dolce conclusione, ripulendo dai sapori precedenti. Il finto tramezzino di meringa ripieno di albicocche e mandorle amare colpisce subito per la consistenza (un velo di albumi) che lascia campo libero alla farcitura “gelata” di albicocche, mentre le mandorle quasi non si percepiscono sullo sfondo. Un anticipo di dessert che sorprende, proprio come il commensale abituato alle stelle sulla tavola vorrebbe sentirsi per tutta la durata del pasto.

E la sorpresa aumenta quando sul tavolo arriva, come dessert, quella che viene definita la rivisitazione della cassata. Poche parole, quasi insufficienti, per descrivere quello che, al di là delle portate principali, sarà il piatto più riuscito del menù – e non affatto scontato. La perfetta sfera ricoperta di cioccolato bianco cela un morbido interno di ricotta, dal cuore di pistacchio (rimasto leggermente “gelato”), e la base di crumble puntellata di canditi ne diviene il nido ideale. Letteralmente, una goduria per occhi e palato, che di sicuro ci trascina in Sicilia per una conclusione memorabile, anche se il viaggio che ci ha portati con i sapori in questa stupenda isola non era poi così chiaro, a forchette in mano fin dal check-in.

A chiudere ci pensa, come sempre, la selezione di piccola pasticceria, per addolcire il caffè. Svetta, su tutto, la tartelletta dai sapori tropicali (mango, passion fruit e cocco) dall’esplosione in bocca garantita, ma si difende bene anche la finta mandorla, ripiena di cioccolato bianco, e il lingottino dorato. Ciò che rimane di un percorso gourmet da cinque portate è sicuramente un’esperienza di livello, ma ciò che emerge dopo l’ultimo boccone è la mancanza (forse voluta?) di un filo comune chiaro che lega ogni portata e che comunica in maniera più evidente quella che è la vera idea dello chef. Certamente, cavalcare i sapori di mare ci riporta a gusti inequivocabili per chi vive cullato dal rumore delle onde, ma risultano pressoché assenti – o non disvelati – i richiami alla territorialità, a prodotti ed ingredienti distintivi (senza scomodare l’onnipresente sale di Cervia) che potrebbero connotare ancor meglio le creazioni proposte, al di là dai calici di vino che dal Veneto volano in Germania. Oppure si trova proprio nello smarcamento dalle radici territoriali la chiave di lettura di un menu che, in fondo, fa fede alle premesse: proposte oneste, dai sapori chiari, che ammiccano all’estetica pur senza rimanerne schiave, che ricercano il ricordo della tradizione ma pure lo slancio del futuro, in un perenne equilibrio.

Il servizio

Se con il gusto, unito ad un’esperienza gourmet di livello, l’appagamento è soddisfatto, è invece nel servizio in sala che si registra qualche pecca, considerato che siamo in un tempio gastronomico da due stelle Michelin, le quali richiedono – e rendono appetibili agli avventori – standard alti. Sorvolando sulla mancata accessibilità al guardaroba, che costringe ad appendere le giacche allo schienale delle sedute (e qui forse le norme Covid hanno avuto la meglio sulla coccola), a destare qualche accigliamento sono state le fugaci, e a volte non allineate, spiegazioni delle portate. I cannoli ripieni di tartufo, al tavolo accanto, sono stati ribattezzati sigari; qualche incertezza sull’illustrazione dell’offerta del pane; declamazione un po’ troppo sbrigativa del dolce, presentato semplicemente come una “rivisitazione della cassata”, e per fortuna prima la vista e poi il sapore hanno arricchito, tacitamente, quella veloce introduzione. Intendiamoci, i piatti non hanno un proprio titolo, lasciando così al personale di sala la loro descrizione, ma in più di un’occasione si è paventata l’assenza di un allineamento globale sulle informazioni da riferire ai commensali, talvolta riportate in maniera sommaria. Sono ovviamente minime imperfezioni, ma capaci di balzare all’occhio quando l’atmosfera è a due stelle e le aspettative altrettanto luminose. A rimediare a qualche inciampo ci pensa la cucina, che è sempre la vera protagonista dell’esperienza gourmet che sommessamente, ma con decisione, ritaglia il proprio spazio in una Romagna sempre più colorata, quasi indistinguibile.

Cool

  • Estetica appagante
  • Il dessert è una vera esplosione di gusto
  • Le rivisitazioni colpiscono nel segno

Fool

  • Menù in cerca di un filo comune chiaro
  • Non si colgono i riferimenti alla territorialità
  • Qualche incertezza nel servizio al tavolo
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